mercoledì 26 febbraio 2020

Alpinisti ciabattoni



 In questi ultimi decenni sono state riproposte al pubblico alcune opere letterarie di montagna edite tra fine del 1800 e i primi decenni del 1900 tipo Il terreno di gioco dell'Europa di L. Stephen oppure La mia prima estate sulla Serra di J. Muir, La salita del Cervino di E. Whymper, Fontana di giovinezza di E. Lammer giusto per citarne alcuni. Tutti questi libri hanno in comune una cosa: il testo originale, nella traduzione è stato adattato per essere letto dai lettori del giorno d'oggi. I vocaboli più obsoleti sono stati sostituiti con termini più attuali, la costruzione delle frasi è stata mutata per renderla più semplice, il tutto però sempre mantenendo nei limiti del possibile quelle sfumature che rendono unico ogni scrittore.
"Alpinisti ciabattoni" invece è  un piccolo tesoro di fine XIX secolo, che se fosse stato oggetto anche di una sola delle modifiche di cui sopra, avrebbe perso la maggior parte del suo fascino.
Questa è l'opera più famosa di Achille Giovanni Cagna, nato a Vercelli l'8 settembre 1847. Amico di Faldella e De Amicis, ammiratore di Balzac e Flaubert si dedicò alla scrittura ma solo nella seconda metà degli anni 80, riuscì ad ottenere un successo insperato con questo scritto, che nella prima edizione ebbe la recensione nientemeno che di Eugenio Montale.
Scritto con un linguaggio diventato ormai desueto,  ancor oggi riesce a rendere un'idea precisa di un concetto, di una situazione che si vuole descrivere. Così riscopriamo che "....il sole sprazzava gli ultimi dardi squagliandosi in marosi fiammeggianti..."; oppure che un soppiede si può raggricciare e, per non rendere difficoltoso il camminare, si deve stirare, o ancora "... Una signora con abbondanze matronali sfoggiava al sole l'opulenza massiccia delle sue forme; sotto il giubbetto ponzava un seno monumentale... Martina serrata fino alle orecchie nel suo robone di seta, infagottata nella sua spolverina fatta in famiglia, e le braccia nude oltre al gomito, borbottò in lepidezza bottegaja: Che insegna del martes grass! ".  Sono solo alcuni esempi ma il racconto è ricchissimo di espressioni simili, ed è impossibile immaginarlo riscritto in una versione aggiornata.
E' il racconto delle avventure tragi-comiche del Sor Gaudenzio Gibella e di sua moglie Martina,  una coppia originaria di Sannazzaro, piccola città della Lomellina, dove era proprietaria di una botteguccia ben avviata, e dopo 20 anni di continui rinvii riesce a concedersi la sospirata  settimana di ferie, la prima della loro vita. La meta scelta è il lago d'Orta, del quale hanno tanto sentito parlare. Peccato che niente vada come programmato e tra compagni di viaggio assillanti, albergatori disonesti, sottopiedi fastidiosi, mal di denti e giornate di brutto tempo, il tutto farcito da tanta ingenuità e inesperienza, già da subito i due coniugi sentono la nostalgia della loro quotidianità e della loro bottega.
Il titolo del libro deriva da un'avventura che li vede arrancare sopra Pella alla ricerca dell'alpe Giumello  del quale hanno sentito parlare e dove sperano di poter bere una scodella di latte appena munto. Naturalmente nulla va come deve andare, e quella che sperano sia una bella gita, diventa ben presto un incubo, che li vede tartassati dalla sete, vagare spaesati sotto un sole che "adunghiava ferocemente" tra boschi e pascoli e poi sulla via del ritorno, anch'esso alquanto rocambolesco, che avviene senza essere arrivati all'alpe.

Di quest'opera ci sono tantissime edizioni,  l'ultima delle quali è stata stampata dalla Elliot Edizioni di Roma nel 2013, il che attesta che, anche se sono passati più di 130 anni dalla sua comparsa, il volume è ancora perfettamente attuale, e sembra quasi dare un avvertimento  di quanto può succedere ancor oggi a chi affronta un'avventura, un viaggio o la montagna  senza un'adeguata preparazione.
E' una pubblicazione assolutamente da non perdere, che ci regalerà qualche piacevole ora di sincero divertimento.

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